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Michelangelo Noce:  Da capo del personale di Crema mi sono portato a letto il destino di 800 famiglie

Ancorotti Cosmetics
on September 30, 2024

“Arrivai alla Olivetti che era Ancora società Serio Everest nel 1966, come perito elettrotecnico, appena diplomato. Fu un bell’inizio, un‘avventura entusiasmante che si concluse con una brutta fine. Fui l’ultimo capo del personale di Crema. Seppi della chiusura dello stabilimento cremasco prima di tutti gli altri. Mi portai a letto il destino di 800/1000 famiglie. Anche quello di mia moglie, a cui non l’avevo detto. Lei lo seppe insieme a tutti gli altri”.

La voce rotta dall’emozione, una ferita ancora aperta nonostante siano passati più di 30 anni. Michelangelo Noce era il capo del personale  dello stabilimento cremasco Olivetti, sia negli anni della massima espansione, in cui aveva il mandato di assumere, alla continua ricerca di figure qualificate, sia negli anni in cui ha ricevuto l’ordine di chiudere e di licenziare, anche se tecnicamente si parlava di dimissioni, perché nessuno fu licenziato. Furono tutti ricollocati nelle pubbliche amministrazioni.

 Di quel periodo, prima della chiusura definitiva, che definisce traumatico, fatica a parlare. Troppo grande il peso portato, inizialmente, da solo.   

“Crema ha anticipato i tempi. E’ stato il primo stabilimento a chiudere in Italia. Poi, a seguire, hanno chiuso tutti gli stabilimenti Olivetti. Politicamente era difficile gestire la chiusura partendo dalla casa madre o dal Sud. Partire da Crema era più semplice”.

Le voci che si rincorrevano su una possibile chiusura prefiguravano lo scenario futuro.

“ Circolavano voci, negli anni ’90, c’era già un mormorio. Quando capitavo a palazzo ( ndr casa madre di Ivrea) mi guardavano come fossi un appestato. Poi ho capito e scoperto il perché. C’è stato un accordo fra politica, sindacato e azienda per la chiusura dello stabilimento di Crema. Fortunatamente nessuno è rimasto senza lavoro. Furono tutti ricollocati alle Poste, all’Inps, nella pubblica amministrazione. L’accordo prevedeva che, chi avesse maturato i requisiti per andare in pensione, andasse in pensione. Altri furono agevolati nell’uscita, altri ricollocati. Magari non era proprio il lavoro sotto casa o quello a cui aspiravano, ma un posto di lavoro è stato offerto a tutti”.

Non è stato comunque facile gestire il passaggio dalle assunzioni alla chiusura: “Il grosso delle assunzioni fu fatto nei primi anni ’70 e quando divenni capo del personale, negli anni ’80, mi sono occupato principalmente di assumere: ero alla ricerca di diplomati, laureati, sia a Crema, a Ivrea e nel Canavese; a volte faticavo a trovare persone qualificate e disponibili, anche ad eventuali spostamenti. Erano gli anni del boom all’Olivetti. Ogni giorno ricevevo la  telefonata da Ivrea: “Quanti ne hai assunti oggi? Poi da cacciatore di teste mi sono trasformato in killer. Si era invertita la rotta e mi chiedevano: – Quanti ne hai agevolati per l’uscita? – ”Non ce la facevo più, tanto che, non appena ho maturato i requisiti minimi per la pensione, mi sono dimesso”.

 Nonostante tutto ha mantenuto un buon rapporto con i colleghi che sono rimasti amici. Nessuno gli ha attributo la responsabilità dei licenziamenti.

“ Passare vent’anni insieme, nello stesso posto a condividere lavoro affetti e amicizie e ritrovarsi a 40-45 anni a cambiare completamente vita, non è stata una passeggiata. Credo che il peso più grosso sia stato quello di perdere gli affetti più cari; salutare o dire addio a circa 2000 persone che si  conoscevano molto bene. Io fui il primo a sapere della chiusura; non potevo dirlo; neanche a mia moglie, che lavorava all’interno dell’Olivetti come impiegata. Quando è stato dato l’annuncio della chiusura, per me è stato liberatorio. Finalmente era ufficiale.  Mi sono tolto un peso che, per un anno, non avevo potuto condividere con alcuno”.

Michelangelo Noce ripercorre poi a ritroso la storia della sua attività lavorativa all’Olivetti.

“Avevo 18 anni e, terminato da un mese gli esami di stato, mi chiamarono a lavorare alla società Serio-Everest che produceva le famose “macchinette” il cui management, scoprì poi, era già Olivetti. Era il 1966 e dovevo fare ancora il militare. Rientrato dal servizio di leva, iniziai a lavorare nello stabilimento nuovo di via Bramante, già operativo dal’69. La mia prima mansione fu Analista tempi e metodi detto anche “cronometrista“. Misuravo il tempo delle operazioni ai dipendenti. Poi, negli anni della massima espansione, in cui Olivetti arrivò a superare i 3000 dipendenti, passai dal reparto in cui lavoravo come perito elettrico a caporeparto di un reparto dell’ Officina Olivetti, in cui gestivo un centinaio di persone  tra giovani e persone più vecchie di me. Divenni in seguito Responsabile dell‘ufficio tempi e metodi e  feci, per alcuni anni, un’esperienza al controllo di gestione fino a diventare capo officina, che significa coordinamento di tutti i capireparto. Nell’84 venni chiamato all‘ufficio del personale e quando il mio capo ritornò ad Ivrea mi lasciò in eredità lo stabilimento di Crema. Divenni capo del personale. Un lavoro che non si impara a scuola ma sul campo, in cui predominano le relazioni umane rispetto all’ambito tecnico produttivo. Ho ricoperto quel ruolo fino al termine della mia attività lavorativa che è avvenuta ad Agliè nel 1999, anno in cui ho rassegnato le dimissioni”.

Dell’Olivetti si porterà sempre dentro gli affetti, la filosofia aziendale e lo spirito di gruppo: “Intanto va detto che eravamo davvero una grande famiglia. Molti di coloro che vi lavoravano hanno conosciuto all’interno dell’azienda la propria moglie e marito. E’ accaduto a me e a tanti altri. Ma soprattutto, la grande intuizione e innovazione di Adriano Olivetti, da sognatore qual’era, è stato il senso di appartenenza e lo spirito di gruppo. C’era un rapporto stretto con il  proprio lavoro tale da sentire spesso chiamare  dai dipendenti- la mia UMI – dove UMI sta per unità di montaggio integrato. Era la macchina che assemblava tutti pezzi ed usciva il prodotto finito; un‘attività che si faceva in gruppo. L’oggetto prodotto da quell’unità faceva da legante tra le persone. Era la mini fabbrica a creare il gruppo, allo steso modo delle unità di montaggio integrato. Di questa filosofia era permeata tutta l’Olivetti. Una filosofia incentrata più sulla condivisone e collaborazione che sulla competizione.

Nonostante gli ultimi anni sofferti, è un‘esperienza che rifarebbe. Olivetti lo ha ripagato più di quello che gli è costato: “ Rifarei tutto. Umanamente e professionalmente sono cresciuto. Quello che ho ricevuto è maggiore del prezzo che ho dovuto pagare”.